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Rifrazioni di parole, riflessi di teatro

di Luisa Gabbi

Tratto da Mongolfiera - n.84, luglio 1988

 
Rossana Di Stefano e Grazia Guerriero in "Il tempo non è una pausa di riflessione" regia di Nino Campisi (1988)

Archivio Storico - Teatro del Navile. "Il tempo non è una pausa di riflessione" e "Non è costume del cielo alzare la testa" di Nino Campisi, 1987-1988.

(...) In "Il tempo non è una pausa di riflessione", liberamente tratto da "Un passo da Gomorra" la scenografia è stata sintetizzata in pochi oggetti di colore neutro, ricordi di oggetti, opachi, (ipotesi per una natura morta di Morandi).


Anch'essi sembrano rifiutare la narrazione tout-court, la facile storia di un'etichetta, e restano come forme, come spazio solido, se non pietrificato.


Sono segnali di non trasparenza su cui urtano le voci di Mara e di Charlotte, due giovani donne le cui vite si allacciano casualmente, a una festa tra amici. Un nodo complesso, difficile da stringere, difficile da dire, e da proporre. La scelta registica di Nino Campisi ha selezionato lucidamente il linguaggio scenico: una recitazione cinematografica dei primi piani e dagli sfondi immensi e desolati di Wim Wenders; alternata a questa i flash in avanti, i flash-forward, emergono dal buio, lasciano la voce a Laurie Anderson e propongono in moviola sequenze gestuali, desiderate o temute, reali o immaginarie, che si ripetono caricandosi di forza e di emotività.


La voce fuori campo, l'identità maschile di "colui'" che narra , accompagna le pause di quiete e di sospensione.


L'alternarsi di questi elementi costituisce un insieme calibrato ,preciso, grazie anche all'interpretazione di Rossana Di Stefano e Grazia Guerriero sempre all'altezza nella difficile ricerca di un'essenzialità espressiva.


(...) Se ne "Il tempo non è una pausa di riflessione "è la complessità del rapporto tra individui, donne, in questo caso, a voler essere detta, a infrangersi contro il dicibile, trascinando con sè le contraddittorie emozioni di una maturità da trovare, in "Non è costume del cielo alzare la testa" la dimensione del rapporto è semplificata e diventa quella di un uomo con la propria discendenza, la propria stirpe, la propria paternità.


Liberamente tratto da "Alles" ("Tutto") il testo presenta le dure riflessioni di un giovane padre che ha perduto il figlio, in una banale gita scolastica, in un banale incidente, uno come tanti dalle cronache dei giornali.


L'indicibile è qui l'inconcepibile; il quotidiano, scontrandosi con il tragico, perde di identità, diventa paradossale.


A tale assurda coesistenza si affianca la sfera del mitico: le proiezioni non soddisfatte di una paternità nuova rientrano lentamente, sotto l'ingigantirsi delle immagini patriarcali, di una tipologia maestosa e consunta che non garantisce il senso e la sopravvivenza.


Interamente affidata all'interpretazione di Daniele Ruzzier, molto sensibile e sempre misuratissimo, mai sbilanciato verso facili risonanze, la scrittura scenica di Campisi sceglie di affiancare due codici espressivi diversi: da un lato la recitazione "minimalista", molto sentita ma anche molto limpida che consegna lo sviluppo dell'emozione al Mahler dei Kindertotenlieder e sono le note della tragicità del quotidiano. Dall' altro il gesto pieno, la maschera, la danza, ed è la raffigurazione plastica del mito negli atteggiamenti melodrammatici appoggiati alla musica di Wagner.


Anche in questo caso i linguaggi restano separati e indipendenti, ma si concatenano con fluidità, acquistando gradatamente in pregnanza, sviluppando e rivelando, via via, le proprie interne chiarezze.

Luisa Gabbi

Mongolfiera - n.84, luglio 1988.

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